Intanto cominciamo subito con il dire che il fiume che da il nome alla valle si chiama Belìce, con l'accento sulla i. Purtroppo dopo il violento terremoto che nel 1968 sconquassò la zona, distruggendo Gibellina e danneggiando gravemente i comuni limitrofi, i media coprirono la notizia pronunciando male il nome del fiume e da allora spesso si sente pronunciare in televisione valle del Bèlice, ma è un errore. Deriva dall'arabo Bil'ch o dalla pronuncia locale Belìch, antico castello posto sulla confluenza dei due rami del fiume. Trasformato poi in Bilìchis nel periodo normanno, il nome arriva ai giorni nostri in Belìce o come dicono i siciliani lu Bilìci.
Il fiume Belìce, scorrendo lungo l'omonima valle compresa tra le province di Trapani, Palermo e Agrigento, traccia un percorso in cui la vite, il grano, l'ulivo, le greggi disegnano il paesaggio agrario; le spiagge sabbiose, le palme nane, le acque termali ed i boschi caratterizzano l'ambiente naturale; mentre i templi dorici, i castelli medievali, i vicoli saraceni, i luoghi del Gattopardo, i ruderi del terremoto e le sculture della ricostruzione, ne scrivono la storia. In questo territorio, soprattutto nei mesi estivi, si produce l'unico pecorino siciliano a pasta filata: la Vastedda della Valle del Belice; ottenuto con il solo latte delle pecore della razza Valle del Belice, utilizzando attrezzature tradizionali.
Sappiamo che la pastorizia e la viticoltura ebbero in questa Valle un notevole sviluppo con l'avvento degli Aragonesi e in particolare con il re Federico II "il Vecchio". Il documento più antico ritrovato, che riferisce sulla vendita di formaggio prodotto nella Valle del Belice, risale alla metà del XV secolo. Anche altri documenti di archivio fanno riferimento a diverse tipologie di formaggio come il pecorino, la ricotta, il caciocavallo e la vastedda, prodotti nella zona.
L'origine di questo formaggio non è legata ad alcuna idea progettuale, ma probabilmente al tentativo, di un vecchio casaro, di recuperare i pecorini andati a male a causa del forte caldo estivo, tagliandoli a fette ed immergendoli nell'acqua calda per eliminarne l'acidità. La pasta così disacidificata, inaspettatamente, cominciò a filare ed il casaro, allora, la ripose in un piatto fondo trovato lì per caso; il formaggio prese così la forma tipica della vastedda, ovvero della comune pagnotta, un pane a forma circolare larga e schiacciata.
L'etimo più remoto del termine vastedda o guastedda (propriamente, una sorta di "schiacciata" o focaccia ricolma di ricotta o altro) è riconducibile al francese antico gastl o meglio al normanno guastel o wastel. Il termine potrebbe anche derivare dal dialetto vasta cioè guasta, riferito alla pasta andata a male per una fermentazione anomala dei caldi giorni estivi.
Per conoscere invece le origini della pecora belicina, occorre andare indietro nel tempo. Deriva dall'incrocio tra le razze Pinzirita, originaria locale, con la Comisana e poi con la Sarda; quest'ultima giunse in Sicilia a seguito di predazioni compiute dai saraceni nelle aree del Mediterraneo.
Questa particolare razza, grazie alla sagace opera di selezione condotta nel corso dei secoli dagli allevatori della zona e, in tempi più recenti, dalla Facoltà di Agraria di Palermo e dall'Associazione Regionale Allevatori, ha raggiunto prestazioni produttive di rilievo (produzioni medie di 200 kg di latte per capo a lattazione) ed è stata riconosciuta ufficialmente nel 1998.
La pecora della razza Valle del Belice, inserita a pieno titolo tra le migliori razze ovine da latte presenti in Italia ed in Europa, oltre che per l'elevata produttività, si caratterizza anche per la presenza di un apparato mammario voluminoso e generalmente ben conformato, per l'attitudine ai parti bigemini e per una spiccata resistenza alle avversità atmosferiche.
I prodotti dell'allevamento sono rappresentati oltre che dalla Vastedda, dal pecorino fresco o stagionato, dalla ricotta e dal formaggio canestrato. Il latte prodotto può essere trasformato in azienda o conferito al caseificio che si approvvigiona di latte giornalmente e produce prevalentemente formaggio fresco che rivende sul mercato locale a commercianti.
Purtroppo, negli ultimi anni, molti casari hanno fatto un uso improprio del termine Vastedda, commercializzando, in tutti i mesi dell'anno, un prodotto dalle caratteristiche ben diverse da quelle del formaggio tradizionale. Si tratta in realtà di una tipologia casearia prodotta con latte ovino e bovino trattato termicamente ed utilizzando esclusivamente attrezzature in acciaio.
Allo scopo di tutelare la tradizione storica di questo formaggio, nell'agosto del 2001 è stato costituito il Consorzio per la tutela del formaggio Vastedda della Valle del Belice, promosso dai comuni di Santa Margherita Belice, Sambuca di Sicilia, Menfi, Sciacca, Partanna e Castelvetrano, dalla Provincia regionale di Agrigento, dalla provincia regionale di Trapani, dal Dipartimento S.EN.FI.MI.ZO della Facoltà di Agraria di Palermo, dalle organizzazioni professionali Agricole e dall'Associazione Regionale Allevatori della Sicilia.
Grazie all'opera del consorzio la "Vastedda della Valle del Belìce" ha ottenuto la Denominazione d'origine protetta (D.O.P.) dall'Unione europea, il cui regolamento è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale dell'Unione Europea in data 29 ottobre 2010. La denominazione di origine protetta Vastedda della Valle del Belìce D.O.P. è riservata esclusivamente al formaggio a pasta filata, ottenuto con latte di pecora allevata nella Valle del Belìce.
In particolare in provincia di Agrigento le città di: Caltabellotta, Menfi, Montevago, Sambuca di Sicilia, Santa Margherita di Belìce e Sciacca; in provincia di Trapani le città di: Calatafimi, Campobello di Mazara, Castelvetrano, Gibellina, Partanna, Poggioreale, Salaparuta, Salemi, Santa Ninfa e Vita; in provincia di Palermo: Contessa Entellina e Bisacquino limitatamente alla frazione denominata "San Biagio".
La produzione è rigidamente protocollata da un disciplinare: il latte crudo di una sola munta o nella stagione fredda di due munte successive, viene filtrato mediante dei teli o setacci e versato nella tina di legno, in cui avviene la coagulazione con caglio di agnello o di capretto. La giusta consistenza del coagulo, viene valutata saggiandola al tatto e osservando il siero che deve essere limpido.
Dopo la coagulazione e il rassodamento della cagliata, si procede alla rottura della massa che viene effettuata con un bastone di legno, la rotula. Questa fase porta ad ottenere grumi di cagliata molto piccoli e molto spurgati perché la sineresi spontanea è favorita dall'acqua calda aggiunta durante la rottura stessa. Cessata la rottura, i grumi si depositano sul fondo del recipiente e vengono agglutinati manipolando la massa caseosa con le mani. Separato il siero, con il quale si ottiene la ricotta dal gusto particolare, la massa caseosa, tagliata a quarti, è grossolanamente spurgata nella stessa tina dove è avvenuta la coagulazione. La massa estratta viene messa in canestri di giunco e pressata energicamente per favorirne l'ulteriore spurgo.
Il periodo di maturazione della pasta va dalle 24 ore alle 48 ore nella stagione fredda. I casari più esperti riescono a stabilire empiricamente e manualmente l'esatta maturazione della pasta facendo delle prove di filatura. Raggiunta la giusta acidità, la pasta viene tagliata a fette in un recipiente in legno, in cui si aggiunge acqua molto calda, e lavorata con l'ausilio di una pala di legno (cisca o vaciliatuma), fino a quando il formaggio comincia a filare.
Tolta la pasta dalla scotta, si manipola in modo da ottenere una forma ovoidale plastica, liscia di colore bianco avorio. Questa forma viene deposta in piatti fondi ove, dopo essere stata rivoltata alcune volte, prende la caratteristica forma. Quest'ultima, avendo un contenuto acquoso modesto, rassoda rapidamente e, pertanto, si procede quasi immediatamente alla salatura. Questa viene condotta, in salamoia satura a temperatura ambiente, per un tempo di circa due ore. Segue, poi, l'asciugatura in locali freschi e moderatamente ventilati.
L'uso prevalente delle attrezzature storiche in legno, come la cisca, la tina, il tavoliere, la rotula, il bastone e le fiscelle di giunco in associazione con l'esclusivo impiego del caglio in pasta di agnello o capretto, allevati nella zona e preparati con metodologie tradizionali, trasferiscono al formaggio una flora microbica ed un patrimonio enzimatico che conferiscono alla "Vastedda" pregevoli caratteristiche organolettiche distintive.
Il formaggio, che deve essere consumato fresco (dopo soli tre giorni dalla preparazione), si presenta delicatamente profumato con sentori di erbaceo e di vaniglia, con un sapore dolce acidulo ed un aroma di latte fresco che richiama quello delle essenze foraggiere tipiche della zona, come le graminacee e la valeriana.
La Vastedda della Valle del Belice, ha un contenuto proteico superiore rispetto alla media di altri formaggi ovini freschi; ciò è dovuto alla sua particolare tecnica di lavorazione, che causa il dilavamento del grasso durante il processo di filatura della pasta e il conseguente aumento, a parità di peso, delle proteine presenti. Ciò determina una spiccata leggerezza del formaggio ed una maggiore digeribilità.
Ciascuna forma, il cui peso può variare tra i 500 ed i 1.500 grammi, si presenta con una crosta liscia di colore bianco avorio; la pasta bianca e compatta può avere qualche striatura dovuta alla filatura artigianale, l'occhiatura invece è assente o molto scarsa.
I luoghi
La Vastedda della valle del Belìce D.O.P.: un'antica delizia della terra del Gattopardo