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La zona montuosa dove s'incontrano le catene dei Nebrodi e dei Peloritani descrive un paesaggio ricco d'intensa vegetazione e di un fitto manto boschivo (faggete, castagneti, noccioleti) con rocce verdeggianti che scendono a picco sul letto di brevi corsi d'acqua. In questo territorio i pascoli montani, per via della purezza e della fresca temperatura dell'ambiente, sono ricchi di rare essenze foraggere spontanee che costituiscono una delle più importanti risorse della zona.

La storia di questi luoghi passa attraverso i resti di insediamenti greco- romani, bizantini e musulmani, per poi identificarsi nei borghi medievali scoscesi, nelle chiese barocche, nei conventi, nelle vecchie e signorili abitazioni, e nel castello normanno sul Colle Mankarruna.

Caratteristiche di queste zone sono anche le "neviere" o "fosse della neve", costituite da grandi buche scavate nel terreno che, durante il periodo invernale, fino a qualche tempo fa, erano utilizzate per conservare la neve da utilizzare nella stagione estiva per gli usi aziendali e per il raffreddamento dei cibi e delle bevande.

In questo territorio, da febbraio fino alla seconda decade di giugno, si produce il Maiorchino: un formaggio pecorino a pasta dura, prodotto con latte crudo di pecora della razza Pinzirita a cui tradizionalmente si aggiunge il latte caprino della razza Messinese, utilizzando complesse tecniche di lavorazione tramandate di generazione in generazione.

Il Maiorchino, si distingue dagli altri pecorini siciliani per le sue caratteristiche organolettiche uniche e per l'eccezionale dimensione delle forme. Queste ultime difatti possono raggiunge i 35 centimetri di diametro ed i 12 di scalzo e non pesano meno di 10 kg raggiungendo, a volte, anche i 18 kg. Proprio queste eccezionali dimensioni della forma consentono al formaggio di affrontare una lunga stagionatura che da un minimo di 8 mesi può arrivare anche ai 24 mesi.

Le ipotesi sulle origini di questo formaggio sono numerose: alcune fonti fanno risalire la nascita di questo formaggio ai tempi in cui nell'insediamento originario si adoravano gli dei pagani (in particolare Cerere), ai quali venivano offerti in dono i prodotti della terra.

Nella maggioranza dei dizionari siciliani, il termine Maiorchino viene associato ad un formaggio proveniente da Maiorca, isola delle Baleari; teoria che potrebbe essere accettata facilmente considerando che gli spagnoli esercitarono il loro dominio sulla Sicilia per circa 400 anni.

Secondo altri, invece, il termine deriverebbe da una antica varietà di frumento, la Maiorca: un tempo infatti la migliore produzione casearia coincideva appunto con la mietitura precoce (maggio-giugno) della Maiorca. Quest'ultima viene considerata da studiosi del settore, per l'antichità della sua introduzione in Sicilia, "varietà indigena" e non spagnola. Pertanto, anche il formaggio, pur possedendo una denominazione che è connessa alla Spagna, potrebbe non avere obbligatoriamente un legame con essa.

Altri studiosi la fanno risalire al 1600 collegandola al "gioco della maiorchina" che, ancora oggi, si rinnova ogni anno nei comuni di Novara di Sicilia e di Basicò. Secondo questo gioco, durante il carnevale, i pastori si sfidano facendo ruzzolare, lungo le strade principali del paese, delle forme di formaggio avvolte da una sottile corda. La sfida nasce dal presupposto serissimo di dimostrare pubblicamente che il proprio Maiorchino è talmente stagionato e benfatto, che corre più degli altri e arriva perfettamente integro in fondo alla discesa.

Gioco della maiorchìna
Il gioco è talmente curioso che merita un approfondimento. Consiste nel lanciare la "maiorchìna", facendo leva sul piede di appoggio fermo (pedi fermu) sul punto segnato, senza alcuna rincorsa, lungo un percorso che va dall'inizio della via Duomo al traguardo fissato alla fine di un muretto del piano don Michele. In caso di una eventuale appendice, dovuta alla parità, si prosegue come da tradizione, per la stradina che porta ai mulini di Corte Sottana. Indicati dai capitani i due primi giocatori, fatta la conta (u toccu) per stabilire chi deve iniziare il gioco, i due primi giocatori, rispettivamente intervallati, avvolta la forma con la lazzàda, uno spago da calzolaio, piegato e attorto in otto capi, della lunghezza di non meno di metri 3 - 3,50, ed impeciato, per meglio aderire alla circonferenza, lanciano a maiurchèa lungo il percorso citato, e di seguito, i secondi giocatori delle rispettive squadre, alternandosi, dal punto dove è andata a fermarsi.

Il Lancio
La squadra, composta da due o tre tiratori, che con il suo ultimo giocatore raggiunge, il punto di arrivo, con il minore numero di colpi (lanci), risulta la vincitrice ed ha diritto al possesso della posta in palio: "a maiurchèa". Ai margini della strada, teatro e ribalta del giuoco, dopo mezzogiorno, si assiepa tanta folla che, tra l'altro, conoscendo le doti, l'abilità di ogni giocatore-tiratore, evidenzia i pregi e i difetti pronosticando pro o contro il possibile vincitore. Numerosi sono gli imprevisti, i trabocchetti, per cui non c'è mai sicurezza di vittoria da ambo le parti e, molto spesso, accade che i giocatori meno esperti prevalgono sui più quotati.

Liberandosi da lazzàda,  la maiorchìna comincia a guadagnare terreno, girando su sé stessa vorticosamente, "rotola, saltella, rimbomba, precipita" lungo la strada, sbattendo qua e la, immettendosi in altri vicoli (vaèlli) non previsti dal gioco, andando poi, non avendo più la forza di girare, a voltarsi e rivoltarsi, adagiandosi a terra, spesso in fossi, che numerosi sono ai margini della strada e spesso andando "a tombolare" sotto le case, incombenti su profonde cavità (cattafùcchi) esistenti tra le case stesse e la strada elevata. Questi pericoli, che danno meno possibilità di vittoria sono disseminati lungo il Vallone Falanga e lungo la via che porta al piano don Michele. Quando la maiochìna sollecita, lesta e diritta, percorre l'itinerario prestabilito, coralmente si applaude al bel colpo, riuscito e azzeccato.

Tornando a parlare del formaggio, purtroppo, con il passare del tempo, questa eccellenza casearia ha rischiato di scomparire: le nuove disposizioni normative in materia di igiene e sicurezza delle produzioni animali, unitamente alla complessa lavorazione richiesta per la preparazione del Maiorchino, hanno spinto molti pastori ad abbandonarne la produzione. La produzione del Maiorchino ha il suo centro a Novara di Sicilia, e si è successivamente diffusa nelle aree limitrofe: Fondachelli Fantina, Basicò, Tripi, Mazzarà S. Andrea, Montalbano Elicona e Santa Lucia del Mela.

Secondo la tradizionale tecnica di preparazione, il latte ovino appena munto, mescolato con il latte di capre (il 30%), viene versato nella caldaia, chiamata codà, codara o quadara, filtrandolo attraverso un telo o un setaccio. Al latte è aggiunto il caglio in pasta di agnello o di capretto. Dopo la coagulazione e l'indurimento della cagliata, il coagulo viene rotto con l'ausilio di un bastone, brocca, fino ad ottenere granuli molto piccoli delle dimensioni paragonabili ai semi di miglio.

Segue la fase di cottura, condotta agitando continuamente i granuli di cagliata. Successivamente la caldaia si toglie dal fuoco, si appoggia a terra in posizione obliqua ed il suo contenuto si fa riposare per facilitare la sedimentazione della massa caseosa sul fondo. Questa massa viene raccolta, in genere, con l'ausilio di un telo e viene riposta in una fascera di legno chiamata garbua, che viene poggiata su un piano di legno, il mastrello.

Segue quindi, la fase di spurgo che viene facilitata praticando piccoli fori nella pasta con sottili aghi di legno o ferro detti minacini, e pressando delicatamente con le mani in prossimità dei fori. Terminata questa fase, che richiede molto tempo e pazienza, la forma viene trasferita nel recipiente contenente la scotta residua della ricotta, dove si lascia riposare fino al raggiungimento del ph ottimale.

Il Maiorchino, tolto dal siero, viene poi nuovamente forato e pressato in modo da ultimare lo spurgo. Dopo questa operazione si versa dell'acqua fresca per raffreddare e lavare il formaggio e poi si lascia riposare per 24 ore. Dopo la fase di riposo, la forma viene estratta dalla garbua e lasciata asciugare per circa 48 ore.

Non appena il formaggio comincia a fermentare (maturare), si procede alla salatura, praticata a secco per 10/15 giorni ed infine si fa stagionare in locali in pietra interrati, freschi e umidi, dotati di scaffali in legno. Durante i primi 2 mesi di stagionatura, il formaggio va pulito, strofinato e rivoltato; dal terzo mese in poi viene trattato con olio di oliva.

Grazie alla massa imponente e alla tecnica di caseificazione, questo formaggio si presta alla lunga stagionatura. Il Maiorchino infatti, quando è giovane, presenta sensazioni meno intense, dominate dal vello e da sentori di latticello, ma quando supera l'anno di stagionatura i profumi di burro, mele mature ed erba verde, diventano persistenti e netti. Il sapore è delicato, tendente al piccante.

Il formaggio si presenta di forma cilindrica, la crosta liscia è di colore giallo ambrato che diventa marrone con l'avanzare della stagionatura, la pasta è di colore giallo pallido, la consistenza è compatta.

I luoghi

Il Maiorchìno: il gigante buono dei pecorini siciliani

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