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La festa di San Martino in Sicilia: la fine della Quaresima minore

La festa di San Martino conclude tradizionalmente la lunga estate siciliana. I festeggiamenti di questo santo sono da ricondurre all’antichissimo capodanno celtico, il samain che durava ben dieci giorni (a partire dal primo Novembre) e che segnava lo spartiacque tra un anno agricolo e il successivo.

Nella religione celtica si venerava un dio cavaliere, che portava una mantella corta: il culto veniva dalla Pannonia, terra celtica, patria di Martino. Era il cavaliere del mondo di sotto, colui che venendo dagli inferi, passando per un luogo di cento porte, trionfava sulla morte. Era il dio della vegetazione che, attraverso la morte, superava la morte, dunque era il garante del rinnovamento della natura dopo la morte invernale, colui che apriva il nuovo anno.

La funzione è provata anche dalla ruota ai suoi piedi con cui è ritratto nei monumenti trovati in Bulgaria: Wigalois, il cavaliere con la ruota che cavalcava un cavallo nero e portava una corta mantella nera.

Di Martino sappiamo che nacque in un avamposto dell'Impero Romano alle frontiere con la Pannonia, fra l’Ungheria e l’Austria.

La gastronomia rituale in Sicilia

Il padre, tribuno della legione, gli diede il nome di Martino in onore di Marte, il dio della guerra. Ancora bambino, Martino si trasferì coi genitori a Pavia, dove suo padre era stato destinato, ed in quella città trascorse l'infanzia. A quindici anni, in quanto figlio di un militare, dovette entrare nell'esercito. Come figlio di veterano fu subito promosso al grado di circitor e venne inviato in Gallia, presso la città di Amiens.

Si racconta che in una notte d’inverno, mentre era di ronda, incontrò un povero viandante che soffriva il freddo, e non avendo denaro da dargli, tagliò a metà il proprio mantello affinché il mendicante avesse qualcosa con cui coprirsi. Per questo motivo san Martino, oltre a essere il protettore dei militari, lo sarà anche dei pellegrini. La notte seguente vide in sogno Gesù, rivestito della metà del suo mantello militare, e lo udì parlare ai suoi angeli: "Ecco qui Martino, il soldato romano che non è battezzato, egli mi ha vestito". Quando Martino si risvegliò il suo mantello era integro. Il mantello miracoloso venne poi conservato come reliquia ed entrò a far parte della collezione di reliquie dei re Merovingi dei Franchi. Il termine latino per "mantello corto", cappella, venne esteso alle persone incaricate di conservare il mantello di san Martino, i cappellani, e da questi venne applicato all'oratorio reale, che non era una chiesa, chiamato cappella.

Il sogno ebbe un tale impatto su Martino, che egli, già catecumeno, venne battezzato e la Pasqua seguente divenne cristiano. Martino rimase ufficiale dell'esercito per una ventina d'anni raggiungendo il grado di ufficiale nelle alae scolares (un corpo scelto). Giunto all'età di circa quarant'anni, decise di lasciare l'esercito. Iniziò la seconda parte della sua vita. Martino si impegnò nella lotta contro l'eresia ariana, condannata al Concilio di Nicea (325), e venne per questo anche frustato (nella nativa Pannonia) e cacciato, prima dalla Francia e poi da Milano, dove erano stati eletti vescovi ariani. Nel 357 si recò quindi nell'Isola Gallinara ad Albenga in provincia di Savona, dove condusse quattro anni di vita eremitica. Tornato quindi a Poitiers, al rientro del vescovo cattolico, divenne monaco e venne presto seguito da nuovi compagni, fondando uno dei primi monasteri d'occidente, a Ligugé, sotto la protezione del vescovo Ilario.

Nel 371 i cittadini di Tours lo vollero loro vescovo, anche se alcuni chierici avanzarono resistenze per il suo aspetto trasandato e le origini plebee. Come vescovo, Martino continuò ad abitare nella sua semplice casa di monaco e proseguì la sua missione di propagatore della fede, creando nel territorio nuove piccole comunità di monaci. Avviò un'energica lotta contro l'eresia ariana e il paganesimo rurale. Inoltre predicò, battezzò villaggi, abbatté templi, alberi sacri e idoli pagani, dimostrando comunque compassione e misericordia verso chiunque. La sua fama ebbe ampia diffusione nella comunità cristiana dove, oltre ad avere fama di taumaturgo, veniva visto come un uomo dotato di carità, giustizia e sobrietà. Martino morì l'8 novembre 397 a Candes-Saint-Marten, dove si era recato per mettere pace tra il clero locale.

Così è facile capire il culto che San Martino ebbe nelle Gallie di cui fu l’evangelizzatore: fu colui che sostituì l’amatissimo dio cavaliere che, cantando e danzando, apriva la porta al nuovo anno. Quella festa pagana era ancora viva nell’VIII secolo e siccome Martino fu fin dal primo medioevo il santo più popolare d’Occidente, la Chiesa pensò bene di cristianizzare i festeggiamenti celtici trasferendo molte delle sue usanze nella festività del celebre vescovo di Tours.

Perciò la festa di San Martino divenne in gran parte dell’Europa una sorta di capodanno: in Italia, fino al secolo scorso, l’11 novembre cominciavano le attività dei tribunali, delle scuole e dei parlamenti; si tenevano elezioni e in alcune zone scadevano i contratti agricoli e di affitto. Tuttora in molti luoghi si dice "far San Martino" all’atto di traslocare o sgomberare, perché era proprio in questo periodo che si cambiava tradizionalmente casa: praticamente tutti i cambiamenti si facevano per San Martino.

In questo periodo era comune anche celebrare l’inizio dell’Avvento con la Quaresima di San Martino. Di questa festa abbiamo testimonianza in un antico documento in cui si trovano, precisati, in maniera sia pure poco chiara, il tempo e gli esercizi dell'Avvento, è un passo di san Gregorio di Tours, al decimo libro della sua Storia dei Franchi nel quale riferisce che san Perpetuo, uno dei suoi predecessori, che occupava la sede verso il 480, aveva stabilito che i fedeli digiunassero tre volte la settimana dalla festa di san Martino fino a Natale. Con quel regolamento, san Perpetuo stabiliva un'osservanza nuova, o sanzionava semplicemente una legge già esistente? È impossibile determinarlo con esattezza oggi. Rileviamo almeno questo intervallo di quaranta giorni o piuttosto di quarantatré giorni, designato espressamente, e consacrato con la penitenza come una seconda Quaresima, sebbene con minor rigore. Troviamo quindi il nono canone del primo Concilio di Mâcon, tenutosi nel 583, il quale ordina che, durante lo stesso intervallo da san Martino al Natale, si digiunerà il lunedì, il mercoledì, il venerdì, e si celebrerà il sacrificio secondo il rito Quaresimale. Qualche anno prima, il secondo Concilio di Tours, tenutosi nel 567, aveva ordinato ai monaci di digiunare dall'inizio del mese di dicembre fino a Natale. Questa pratica di penitenza si estese a tutti i quaranta giorni per i fedeli stessi; e si chiamò volgarmente la Quaresima di san Martino. I Capitolari di Carlo Magno, al libro sesto, non ne lasciano alcun dubbio; e Rabano Mauro attesta la medesima cosa nel secondo libro della Istituzione dei chierici. Si facevano anche particolari festeggiamenti nel giorno di san Martino, come si fa ancor oggi all'avvicinarsi della Quaresima e a Pasqua.

Il giorno di San Martino era quindi tempo di baldoria, favorita dal vino "vecchio” che proprio in questi giorni occorre finire per pulire le botti e lasciarle pronte per la nuova annata. Il culto di San Martino arrivò in Sicilia con i normanni. L'11 novembre diventò la festa dei beoni: «a San Martinu ogni mustu è vinu», e un motto popolare ricordò a tutti che «cui si leva di vinu, dici evviva San Martinu». E si banchettò allegramente a maggior gloria del santo. Con il vino gli abitanti delle terre che una volta era la "Gallia Cisalpina” consigliano di mangiare le castagne e l’oca: "Per San Martino castagne, oca e vino!”. Un’usanza, quella di mangiare l’oca, da rispettare per avere fortuna, come ci ricordano i Veneti: "Chi no magna l’oca a San Martin nol fa el beco de un quatrin!”.

Castagne e noci ci sono anche in Sicilia, ma mancavano le oche, sostituite con un pennuto più indigeno, un "adduzzu”, galletto ruspante ormai dimenticato. Dopo la scoperta dell’America arrivò in Sicilia il tacchino, che fini, naturalmente, sulle mense patrizie. Buona creanza voleva che non si andasse in casa altrui il 10 e soprattutto l’11 novembre perché tutte le donne erano affaccendate in cucina e una inopportuna visita equivaleva a una tacita richiesta d’invito.

Era una delle poche occasioni festive per una buona bevuta e un pasto degno di tal nome. Il rito prevedeva gli anelletti al forno, il galletto "agglassatu” con tante patate a contorno, i primi cavolfiori (broccoli) che venivano invariabilmente "assassunati” (assaìsonnés con l’aglio soffritto), la prima ricotta e le prime arance. Talmente aspre da finire spesso in insalata come "levasdegnu". Si onorava il vino novello, annunciato in tutte le taverne, con l’esposizione di fronde di alloro.

Per chiudere in allegria non mancavano mai i biscotti di San Martino, profumati con i semi dell’anice ma "duri comu li corna”, a cui seguiva il classico moscato di Pantelleria. A tavola si restava volentieri per lo "scacciu”: mandorle, noci, nocciole, definite "isca di viviri”, incentivo al bere, e si tornava a onorare il vino fra lazzi e battute.

Per San martino a palazzo Adriano si onora un'originalissima e folkloristica tradizione di origine balcanica che celebra le coppie sposate nell'arco dell'ultimo anno; queste ricevono dai parenti e dagli amici più intimi dei regali che sono portati da fanciulli, nella mattinata, in cesti arricchisti da fiori e dolci.

In occasione della festa che ricorda l'antico soldato illirico, San Martino, la tradizione vuole che i parenti e gli amici si facciano carico della costituzione della casa degli sposi novelli e una volta anche del rifornimento del vitto necessario per l'anno in corso.

Questa magnifica tradizione, che è una delle tante importanti forme di solidarietà sociale di origine balcanica, ormai sopravvive soltanto a Palazzo Adriano. In questa mattinata autunnale i bambini sfilano per le strade portando dei cesti e dei vassoi, adorni con tovaglie finemente ricamate, contenenti il regalo e gli altri dolciumi, in particolare i "panuzzi di San Martino". I genitori dello sposo usano regalare "u codaruni", i genitori della sposa "a brascera".
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I piatti della festa

Anelletti al forno Galletto agglassato Broccolo assassunato Biscotti di San Martino Sfinci di San Martino
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