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I piatti della festa
A chi si chiedesse che cosa sia rimasto dell’antico Carnevale di Sicilia non si potrebbe che rispondere con le parole del Pitrè che a questa usanza dedicò largo spazio nel primo volume di "Usi e costumi credenze e pregiudizi del popolo siciliano", e successivamente in "La famiglia, la casa, la vita del popolo siciliano".Scriveva Pitrè «Certo, chi volesse farsi un’idea dell’antico Carnevale siciliano, non potrebbe, senza cadere in grossolano errore, guardare al Carnevale presente, perché ben poche feste periodiche furono più caratteristiche, più clamorose di queste, nelle quali la innata passione del popolo pel divertimento e pel sollazzo trova pabulo e sviluppo. Storicamente parlando, il Carnevale, meglio di qualsivoglia altra festa e spettacolo popolare sacro o profano, ci rappresenta le condizioni civili e politiche dei tempi, avendo di esse seguito o piuttosto subito le vicende e la fortuna. Però lo incontriamo ora lieto ora chiassoso, ora triste e silenzioso, ora frenetico e pazzo ed ora calmo e riflessivo. L’antica massima che per governare ci vogliono tre F: Feste, Farina, Forche, attribuita a questo od a quel principe, applicata a questo o a quel popolo, sorge spontanea alla mente di chi per poco riguardi queste vicende».

L’acuta analisi del Pitrè secondo la quale il Carnevale non sarebbe che lo specchio dei tempi, non può che farci pensare e constatare con amarezza, salvo forse qualche eccezione, l’appiattimento in cui versano i Carnevali,e non soltanto dell’isola. Sembra infatti che con lo scadimento qualitativo del Carnevale sia venuto meno quello spirito del divertimento puro e semplice che riempiva la vita di un popolo che aspettava con ansia il susseguirsi delle festività. Forse siamo ormai talmente abituati a una sorta di svago giornaliero, offertoci dai mezzi di comunicazione di massa a buon mercato fin fra le quattro pareti delle nostre case, che abbiamo perduto persino il gusto del divertimento, del ridere e del rivivere in seno alla comunità, sfogo naturale delle nostre nevrosi. Ed è per questo, forse, che assistiamo anche al tramonto delle feste religiose e delle usanze a esse connesse.

La data convenzionale dell’inizio del Carnevale in Sicilia, pur variando da paese a paese, era cristallizata nel proverbio:
Doppu li Tri Re, tutti olè.

Osservava Serafino Amabile Guastella ne L’antico Carnevale della Contea di Modica: «In niuno di essi fa capolino prima del dodici Gennaro, imperocché il giorno precedente è consacrato alla commemorazione del terremoto, che nel 1693 devastò mezza Sicilia». A Monterosso e a Giarratana, sempre secondo il Guastella, il Carnevale aveva inizio il 17 gennaio, festa di S. Antonio Abate; mentre a Siracusa entrava, in pratica, il 21 in quanto il giorno precedente si chiudeva il ciclo delle festività religiose con la festa popolare di S. Sebastiano, patrono dei vastasi (Scaricatori portuali, dal greco bastàzo ‘portare’).

«Trasi u iabbu», si diceva; e questo momento significava tempo di scherzi, perché a Carnaluvari ogni scherzu vali e cu s’affenni è n maiali, di scialìbbia, di divertimento, e di fistini, di feste di ballo, che si davano il sabato sera ora in questa casa ora in quell’altra. Questa la descrizione di un fistinu fattaci da Giuseppe Melodia: «Si ballò così alla buona  il “trescone”, la “faggiolata”, e il “chiodo”; ma alcuni giovani vollero un po’ di ballo alla moderna, e si cercò di ballare alla meglio il valtzer, la polka e la quadriglia. Visto però che il direttore della quadriglia poco ne sapeva, si cessò di gridare sciàssê du sciàssê, ed una giovane del vicinato, e poi un’altra, cantarono invece due canzoni siciliane a suon di tamburello, e ne furono assai applaudite con battimani».

Ma il sale del Carnevale era costituito dalle nnuminagghi, gli indovinelli, ora ingenui ora salaci ora a doppio senso, che servivano a riscaldare l’ambiente e a mettere alla prova l’abilità di chi tentasse di risolverle.

Più o meno lungo il Carnevale, i quattro giovedì che lo precedevano possedevano, almeno nella Contea di Modica e in molta parte della provincia di Trapani, come riferiva il Guastella, una denominazione propria. Abbiamo cosi jòviri zuppiddu (‘giovedì zoppetto’), giorno destinato alla distibuzione dei vermicelli ai poveri, di cui il Pitrè e il Guastella ignorano il significato; jòviri di li cummari, «perché in quel giorno ci si scambiava doni fra comari di S. Giovanni»; jòviri di li parenti, «forse per un desinare tra’ congiunti», ipotizzava il Pitrè; e, in fine, jòviri lardaloru o grassu, sopravvisuto fino ai nostri giorni.
In quel di Siracusa, fino a qualche decennio fa, il giovedì che precedeva il giovedì rassu era chiamato mpignaloru perché in quel giorno vigeva l’usanza di dare in bottega, in cambio di pastigghi (castagne secche) o dolciumi, un oggetto sottratto di nascosto ad amico o parente il quale per riaverlo doveva pagare il pegno

Anche gli ultimi giorni di Carnevale possedevano una denominazione propria: li sdirri. Si aveva quindi sdirrumìnica, sdirriluni e sdirrimarti rispettivamente per la domenica, il lunedì e il martedì; sdirrisira era la sera dell’ultimo giorno. Cosi essiri nta li sdirri significava ‘essere di Carnevale’, o come traduceva toscaneggiando il Castagnola (Dizionario fraseologico siciliano-italiano) ‘essere di berlingaccio’.

Gli autori del passato si sono spesi per conoscerne l’origine. Il Traina seguendo Francesco Pasqualino dice «forse da exterus», mentre Michele Pasqualino, figlio di quest’ultimo, lo vuole derivato da de retro attraverso i vari passaggi «darreri, dirrera, ex dirrera, sdirrera, scorciato sdirri». Il Pitrè, a cui fa eco il Salomone-Marino, lo mette in relazione «coi suoi fratelli carnali dernier e derrière di Francia». L’Avolio lo ricollega al vecchio francese dair. Per Gerhard Rohlfs: «Il siciliano li sdirri ‘gli ultimi giorni di carnevale’, li sdirri di lu misi ‘ultimi giorni del mese’ par derivare dal Catalano, cfr. il balearico es darrers dies ‘il carnevale’ (ultimi giorni)».

Ma quest’ultimi giorni fra i contadini siciliani erano intesi anche come li tri ghiorni di lu picuraru (Pitrè) o li du’ jorni di lu picuraru (Salomone-Marino). Narra la leggenda che nei tempi antichi il Carnevale aveva termine il sabato (la domenica). Un giorno Gesù incontrò un pastorello che si affrettava verso casa per godere della fasta con i familiari. Ma ormai non avrebbe fatto più in tempo. Allora Gesù si impietosì e concesse che il Carnevale durasse ancora tre (due) giorni. «E saranno tutti per te» , gli disse il Divin Maestro.

Non c’è Carnevale senza coriandoli, ma forse non tutti sanno che il loro nome derivi dal fatto che nel secoli scorsi si usava lanciare confetti contenenti un seme di coriandolo tanto che tuttora sono intesi come confeti in spagnolo e confetti in inglese. Fu solo a partire dal Carnevale di Milano del 1875, scriveva Bruno Migliorini, che la parola passò ai dischetti di carta colorata, residui della foratura della carta preparata per i bachi da seta. Insieme ai coriandoli di carta, nacque per indicarli in Sicilia il termine pittiddi, che secondo gli autori siciliani potrebbe derivare dal francese petits ‘piccoli’.

L’antico Carnevale si distingueva per la varietà delle maschere delle quali soltanto alcune sono sopravvissute fino ai nostri giorni. Parecchie, come Peppi Nappa, Nardu, Lappaniu, Nofriu, Tofala, Lisa, erano personaggi delle Vastasati un tipo di farsa in auge a Palermo sul finire del Settecento, nella quale veniva rappresentata la classe dei vastasi. A queste si aggiungevano il Mortu-porta-u-vivu (‘il morto-porta-il-vivo’), l’Ammuccabaddottuli (‘il credulone’), lo Scalittaru (‘lo scalatore’), Don Sucasimmula (‘Don Mingherlino’), Mastru Rappiddu (‘Mastro Grappolino’), e i gruppi mascherati come la Tubbiana e la Varca. Una maschera singolare era la Vecchia di li fusa che compariva in Modica gli ultimi tre giorni di Carnevale e che il Guastella, interpreta come «reliquia simbolica delle Parche». Ma una delle maschere più simpatiche e spassose era il Dottore, che ritroviamo anche nel Carnevale tedesco del Quattro-Cinquecento. A Siracusa si ricorda fino agli anni Cinquanta la figura del Dutturi Pampinedda che si faceva largo tra la folla con l’esortazione «largu, ca passa a scenza!». Toccasana infallibile contro ogni male, lavanni i spini i rizzi.

C’era, poi, il Festivallu, un complesso in legno composto all’interno di piccoli casotti in cui si giocava sutt’ô novanta il cannolo, la bottiglia di liquore o qualcosa di maggior valore. Giovani buontemponi se la spassavano dando u vaia a qualche malcapitato con l’affiggergli alle spalle una coda di carta. Subito, per avvertire lo sprovveduto, si alzava il grido i vaia vattatillu. È da interpretare con ‘i guai son tuoi e te li tieni’.

Il sollazzo raggiungeva il culmine il martedì grasso quando a sera incominciavano a comparire i fìmmini nnoci (‘prefiche’. Il Pitrè le chiama nenie) che con il loro trìvulu (‘lamento funebre’) annunciavano la prossima fine del Carnevale sul rogo nei pressi del ponte che unisce Ortigia alla terra ferma. E a mezzanotte in punto... giù la maschera perché altrimenti sarebbe potuta rimanere attaccata al viso. L’indomani, mercoledì delle ceneri, tutti in campagna e a chi si fosse dimenticato che si era ormai in Quaresima, gli si chiedeva: Chista chi è? Alla risposta: lèsina!, lo si rimbottava dicendogli: "Nun ti zitti ca è Quaresima!"; similmente a Catania: «[...] e, quanto a’ motti indecenti, a chi voglia dirne e ripeterne ancora finito il Carnevale, cului a cui cio dispiace come sconveniente, domanda: - Lu scarparu chi havi? Quello risponde: - La lesina; e il primo - Nun si dici cchiù, ch’è Quaresima». È evidente il gioco di parole “lesina” inteso come strumento del calzolaio e “lesina” avarizia della gola che è propria della Quaresima.

Piatto per eccellenza del carnevale fu ed è la salsiccia cucinata in mille modi, ma di preferenza arrostita sulla brace. “Salsicia”, con una sola c, dicevano i romani che ne furono ghiotti: da “salsus”, salato, e “insicia”, carne tagliuzzata, insomma, sale e ciccia furono i genitori della regina delle mense carnevalesche siciliane.

Se la salsiccia è la regina, il “cannolu” è il re. Al plurale fa “cannola”. “Canna” è nome volgare della Arundo donax e la canna, del giusto diametro, veniva utilizzata una volta per confezionare la cialda di quella delizia. E da “canna” anche “cannella”, cioè il rubinetto da cui sgorgava l’acqua di abbeveratoi e fontane. Da qui lo scherzo carnevalesco: invece dell’acqua vi scorre la crema di ricotta.

Carnevale in Sicilia: non c'è Quaresima senza carnevale

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